l’amico (Gerardo Abbruzzese)

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“Alle due meno venti!”. È con queste parole che ci lasciavamo dopo una mattinata passata insieme, preoccupati di vederci  presto, dopo mangiato. Michele faceva i conti: all’una si mangia, all’una e mezza si finisce, alle due meno venti possiamo riprendere il filo del discorso. Eravamo bambini. Il discorso non si è mai concluso. Lui se ne è andato nel mondo della Verità quando eravamo ancora in piena discussione.

Ognuno di noi due ha sempre cercato nell’amico di sempre un altro se stesso in cui specchiarsi per trovare il bandolo della matassa. Ad una certa età abbiamo scoperto con piacere che potevamo stare insieme a chiacchierare la mattina fin oltre le due meno venti, senza “andarci a ritirare”. I vari baristi sono diventati le nostre vittime: per loro è diventato inevitabile chiudere tardi. Dopo aver vissuto i vari fastidi della vita, sentivamo il bisogno di raccogliere le idee ed ad una certa ora della mattina dovevamo sederci al bar. Dovevamo sederci fuori perché io non volevo camminare e non volevo stare al chiuso. Michele mi accontentava senza problemi così come io facevo con lui. Ognuno di noi ci teneva che l’altro si sentisse a proprio agio. “Michele, chiama tu che hai la voce più forte!”

Lui, facendo girare tutti gli avventori, con voce stentorea, ordinava: “Oste della malora, fiumi di birra!”. Tavolino, birra e amici che si avvicendavano costituivano il “locus amoenus” in cui i nostri discorsi potevano essere veri e paradossali nello stesso tempo. Del resto il paradosso è l’anticamera di qualche verità, seppure provvisoria. Michele era un omaccione (homo megas si definisce in una poesia) e spesso si sentiva goffo ed impacciato. Diceva di essere nato “alla crescenza” e mi prendeva in giro perché io ero nato “alla mancanza”. La statura imponente, la forte personalità, la grande cultura, l’arguzia, l’uso sapiente non solo della lingua italiana ma anche del dialetto lo rendevano sempre protagonista quando si trovava tra la gente. La sua risata coinvolgeva tutti, la sua grande bontà si scorgeva chiara anche dietro le frequenti arrabbiature. Michele aveva sempre dei comportamenti contrastanti: era introverso e compagnone, timido ed eccessivo quando coinvolgeva tutti in qualche folle pagliacciata. Grande giocatore di scacchi, amava concentrarsi davanti a un avversario. Una volta gli chiesi: “Perché giochi a scacchi per strada se pretendi il silenzio?”. Mi rispose: “Un giocatore di scacchi è fondamentalmente un esibizionista!”. In effetti, durante la malattia, negli inverni passati a casa, non giocava contro il “computer” ma contro persone di tutto il mondo contattate su internet: amava la sfida ed il palcoscenico.

Quando eravamo ragazzi, lo esaltava cantare forte mentre si passeggiava per il corso: aveva bisogno di trasmettere le proprie emozioni e nemmeno la timidezza riusciva a fermarlo. Per questo ha cominciato a scrivere. Gli chiedevo: “Come si fa a scrivere quando si teme il giudizio degli altri?”. E lui: “Il primo scoglio da superare è accettare che gli altri si facciano delle sonore risate leggendo le baggianate che scrivi, del resto da quando eravamo piccoli non abbiamo fatto sempre gli scemi?”. Per noi comportarci da sciocchi non era solo divertente ma anche istruttivo: era un modo per esplorare comportamenti non in linea con il senso comune. A volte facevamo delle cose strane soltanto per osservare le reazioni della gente. Per questo abbiamo impiegato davvero tanti anni per cominciare ad essere presi sul serio. Avvezzi al bighellonamento, intorno ai venticinque anni non eravamo ancora laureati ma questo non ci impediva, alle due meno venti, in estate, di andarcene sul Seminario con un pallone, convinti che qualcuno ci avrebbe raggiunti. Amavamo coinvolgere gli altri e tutti ci volevano bene. Dicevano: “bello stare con Michele e Gerardo”,  facendoci sentire una sola persona. Inutile aggiungere che immediatamente in tanti si univano a noi sulla mitica piazzetta ed alle otto di sera eravamo ancora lì a gridare fra proteste ed esultanze.  Pochi anni dopo, il terremoto avrebbe distrutto la nostra giovinezza e messo in archivio quel luogo incantato. Michele giocava a calcio sempre con la convinzione di essere un po’ ridicolo perché, quando riusciva a conquistare il pallone, non sapeva proprio cosa fare. Io, per convincerlo a venire a giocare, gli dicevo: “Non preoccuparti: io mi avvicino e tu lo passi a me”. Tutto cambiava quando lui cercava di convincermi a giocare a carte. Era un campione, io una schiappa. Voleva che gli facessi compagnia quando giocava a poker e mi prometteva di risarcirmi delle eventuali (in realtà sicure) perdite. Sapeva che avrebbe vinto tutto.

Ogni sera portava via i soldi a tutti i malcapitati fino al punto che un giorno mi disse che non avrebbe giocato più perché gli “dispiaceva”. Una sera a poker stava perdendo tutto ma non si volle arrendere e lanciò sul tavolo le chiavi della macchina. Grazie a questo gesto plateale tornò a vincere. Amava i gesti plateali. Avevamo quattordici anni quando un giorno si fermò al bar di Rocco un camionista nerboruto che, con fare spavaldo, si mise a sfidare i presenti a braccio di ferro. Vinceva con tutti e, nel momento di massima esaltazione, dovette raccogliere, con sufficienza e ilarità, la sfida di un bambino: Michele. Inutile dire che il fanciullo vinse con grande scorno del lacertoso camionista. Da allora ricordo sempre vincitore a braccio di ferro quel mio amico che, pur dotato di forza erculea, non ha mai voluto praticare sport nonostante le mie continue esortazioni. Sono riuscito a coinvolgerlo solo quando abbiamo organizzato manifestazioni sportive con intenti scherzosi e burleschi: il torneo degli “scarsi” o quello di “palla prigioniera”. Ma ora mi fermo “ch’or mi diletta troppo di pianger più che di parlare”. Michele, diamoci un appuntamento tra le stelle, in un vicolo etereo tra il mio “Savuc” e il tuo “cortiglio”, un giorno speciale, alle “due meno venti”!      

                                                                                                                    Gerardo Abbruzzese